Elogia della piccola impresa di Giulio Sapelli

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Elogia della piccola impresa

di Giulio Sapelli, Il Mulino, 2013

Elogia della piccola impresa di Giulio Sapelli, Il Mulino, 2013

 Analisi critica di Francesca Guzzini

L’economia mondiale attraversa un periodo di crisi, ma la crisi, come è noto, è anche parte della teoria della crescita. D’altronde, non è interessante scavare per vedere quanto in basso ci possa trascinare questo momento, bensì risulta più futuribile prendere coscienza del perché si è arrivati a questo punto e cosa di sbagliato è stato fatto, con il fine ultimo di risollevare, quantomeno, le sorti delle generazioni future. È questo l’intento di Giulio Sapelli che, con questo pamphlet, attraverso un’analisi dei dati statistici e storiografici, ci vuole fornire dei capisaldi da cui ripartire. Ovviamente, risulta poco esaustivo se non impossibile, analizzare la situazione mondiale. Quindi, Sapelli ha posto l’attenzione sulla scena italiana.

La prima distinzione da effettuare è tra la grande industria e la micro and small enterprise: la maggioranza delle attività imprenditoriali italiane, ha un solo dipendente, mentre una fetta percentuale quasi insignificante ne ha più di 16. Dagli anni ’70, la grande industria ha subito un ridimensionamento, processo mai avvenuto per la piccola e media impresa, che tutt’ora continua a crescere in quantità, anche come riflesso della disgregazione della grande industria.

Ma dove affonda le sue radici, questa imprenditorialità così diffusa? Per secoli sono esistite delle aree territoriali dove si sono addensate delle particolari produzioni basate sulle antiche lavorazioni. I piccoli mezzadri, una volta svincolati dal padrone, hanno avuto la possibilità di accumulare risparmi e capabilities e gli emigrati che tornano nella terra nativa dopo i sacrifici all’estero, investono i capitali accumulati e portano con se il bagaglio culturale, sono soggetti che non svolgono attività parassitarie, ma imprenditoriali. Completano il quadro, la rete di istituti di credito locale e gli operai altamente specializzati rilasciati dopo il disgregamento di grandi aziende. La piccola impresa nasce con la rivoluzione industriale e convive in maniera mutuata con la grande industrie, dalla quale assorbe linfa vitale e per la quale rappresenta la possibilità di sfruttare al massimo le occasioni portate dall’aumento generale del reddito delle famiglie. La piccola impresa ha caratterizzato anche il fenomeno della mobilitazione sociale verticale.

Con il consolidarsi dei cluster (aree geografiche a concentrazione prevalente di una tipologia di produzione), si è sviluppato anche il concetto di distretto industriale: un agglomerato di imprese territorialmente definito e collegato da relazioni produttive storiche e sociali (Marshall). Le piccole imprese all’interno di un distretto rispondono alla logica del decentramento indipendente, cioè fondano la loro competitività sul rapporto diretto con l’industria del prodotto finito e sulle rete di relazioni con le altre piccole imprese, creando ovviamente una situazione lievemente gerarchizzata di aziende leaders e followers. L’ambito locale, inoltre, influenza la comunità che gravita intorno alla piccola azienda, modificandone sensibilmente lo stile di vita.

La piccola industria italiana è caratterizzata da un tratto comune ad ogni latitudine, essa è sorretta dalla famiglia. Non sorprende che proprio in Italia, paese cattolico, la cellula fondamentale della piccola impresa non è tanto un’unità economica, ma un’unità familiare, un oikos. Questo spiega la sua debolezza ma anche la sua straordinaria resistenza.

La spiegazione teorica del fenomeno si riallaccia agli studi di Chayanov sull’adattamento: aveva elaborato una teoria applicata all’impresa contadina, dimostrando che l’impresa cresce e si sviluppa o rimane statica a seconda dei ritmi di crescita, sviluppo o stasi che ha la famiglia. É facile comprendere il parallelo tra famiglia imprenditoriale e piccola impresa.

La piccola impresa è fondata sulla persona, non sul ruolo, quindi è un meccanismo economico totalmente diverso dalla media o dalla grande impresa. Prevalgono i fattori economico-sociale e di comunità. Non bisogna dimenticare che il fattore comunità può essere positivo o esplosivo, basti pensare a tutti gli imprenditori che, ultimamente, si sono suicidati perché non riuscivano a guardare in faccia i figli degli operai che sono stati costretti a licenziare e per la vergogna di aver chiuso la fabbrica. L’imprenditore della piccola impresa è l’impresa stessa, il manager può essere mercenario, mentre il fallimento economico del piccolo imprenditore è il proprio fallimento personale, così come il successo è motivo di orgoglio personale, della comunità e del paese. L’eccessivo individualismo, la gelosia del territorio da parte dell’imprenditore. Ecco come un fattore quello del radicamento alla tradizione del territorio possa essere trasformato da pregio a handicap. Conduce alla scarsa attitudine a fare squadra e non si compete se non si coopera. Le imprese devono avere dei confini mobili e non statici, soprattutto ira che la globalizzazione ha sfondato ogni confine geografico.

Ora è la seconda generazione, i figli di quegli operai che si erano emancipati, degli emigranti ritornati in patria, saranno in grado di sostenere il lavoro fatto dai loro padri? Sono anche loro affetti da quello spirito di rivalsa sociale che pervadeva i loro predecessori? La storia italiana ci suggerisce di no: l’Italia è stata grande fino al ‘600 poi a seguito della nobilitazione della borghesia comunale e i figli dei borghesi ormai nobili acquisirono delle abitudini nobiliari, non lavorarono più, vissero di rendita fino a quando i loro patrimoni si dissiparono. Le piccolissime imprese corrono questo rischio, l’educazione al lavoro deve passare per il sacrificio. Solo così la nuova generazione può essere di nuovo stimolata e pervasa dallo spirito di rivalsa sociale che nella maggior parte dei momenti storici è stato il motore trainante dell’emancipazione sociale e morale e di conseguenza economica.

A quanto pare i giovani sono la rovina dell’Italia, giovani viziati che sono stati cresciuti nella bambagia. Per come la vedo io, sono figli di genitori che hanno dato tutto quello che potevano alla loro prole, perchè i genitori stessi proveniveno da una classe sociale rispetto alla quale si erano elevati grazie al sudore delle loro fronti e all’impegno, sfruttando la scia positiva del boom industriale. Io stessa mi sento figlia di questi genitori, e mi sono affacciata all’età adulta con la consapevolezza che la situzione italiana non mi avebbe concesso di reggere lo standard, di avere accesso a quello a cui ero stata abituata, per avendo un livello culturale molto più alto dei miei procreatori. Questo perchè? É forse colpa della generazione precedente la mia? Personalmente non credo che una vita di sacrifici e dedizione al lavoro posso far affondare un paese, quello che ci riesce senza troppi sforzi, è una politica malata, con gli stessi protagonisti che muovono i fili del burattino di turno che ci mette la faccia. In questo mi ritrovo in quello che Sapelli dice a riguardo. In realtà, enfatizzerei la cosa, toccando anche il tema del lavoro nero. Se esiste, è perchè conviene, altrimenti perchè dovrebbe convenire rischiare? Semplice! Politiche del lavoro che sono colabrodi. Mobilità e flessibilità in Italia hanno assunto quella sfumatura che dice precariato e giovane, ringrazia se vieni pagato! Laurea?! Bravo l’hai presa, ora vorresti anche un lavoro?! Eppure basterebbe copiare da qualche paese più a nord del nostro…ah si dimenticavo, i nostri politici hanno serie difficoltà a capire documenti in altre lingue!
I giovani sono la chiave per risollevarsi, gli stranieri rappresentano la nuova imprenditoria italiana e nuova importanza assume la figura della donna sempre più protesa a raggiungere la parità sessuale lavorativa sapendo coniugare la sua attività di lavoratrice con quella materna. La decrescita in cui siamo immersi sarà il testimone per questi nuovi protagonisti.
E non bisogna mai dimenticarsi l’entusiasmo.

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